ITALY POST CONTEMPORARY
a cura di Marco Meneguzzo

Cosa significa essere “post contemporanei”? E poi, più delimitatamente, esiste un Italia post contemporanea? Di certo, l’arte italiana vive da almeno un secolo – il Manifesto del Futurismo è proprio del 1909 – una contraddizione evidente: fugge in avanti per sfuggire al passato. Per questo l’Avanguardia è nata lì…ma è anche per la stessa ragione che il passato è così presente, quasi ingombrante. Per questo motivo, il concetto di “post contemporary” potrebbe avere un significato reale: ora che l’avanguardia si è sciolta prima in un’avanguardia di massa, poi in un indistinto magma che assomiglia a una rete sdrucita, o a una nuvola (termine che sintomaticamente qualche informatico vorrebbe sostituire a “web”) non resta che la sensazione di “dover essere” post contemporanei per essere pienamente contemporanei. L’ennesima fuga in avanti, ma in assenza di ogni avanguardia…
E tuttavia, di tutta questa ansia apparentemente inutile e verbale qualcosa rimane, come in una specie di sottofondo, di “basso continuo”, che caratterizza tutta l’arte italiana degli ultimi cento anni (e probabilmente anche dei prossimi cento): la tensione dialettica tra passato e futuro, che però si concretizza in una forma che mira a comporre ogni attrito, invece che ad acuirlo. In altre parole, la memoria e la fiducia nella forma unificante che è sinonimo di “classicità” è la categoria concettuale e la caratteristica stilistica cui si informa tutta l’arte italiana, antica, moderna, contemporanea, post contemporanea.
Dei nove artisti presentati – Giorgio Morandi, Lucio Fontana, Ettore Spalletti, Fausto Melotti, Giulio Paolini, Piero Manzoni, Pier Paolo Calzolari, Gabriele Basilico e Vincenzo Castella – così apparentemente diversi e così lontani anagraficamente gli uni dagli altri, il leit motif che li lega è proprio il senso innato della forma.