L’artista, che utilizza come punti di partenza per i propri lavori alcuni assiomi scientifici fondamentali – quali ad esempio i concetti di riflessione e rifrazione della luce, la conduttività elettrica o l’entropia -, in realtà scava molto più a fondo per indagare le relazioni tra uomo e natura, tra caos e regola, creando dei veri e propri mondi in miniatura.

La prima installazione in cui il visitatore si è trovato immerso, nella penombra della drawing room, è l’opera Isolated Systems Vol. 1: un vero e proprio ecosistema in miniatura dove la Mathis ha riprodotto un semplice esperimento infantile unendo tra loro circa cinquecento patate in circuiti chiusi di sette patate ciascuno, collegati ad una fonte di luce LED. Nel corso di molte settimane, le patate hanno perso la loro conduttività, sono diventate man mano rifiuti e la luce nella sala è diventata sempre più fioca in una metafora tutta umana della nostra parabola mortale.

Così descrive l’opera il curatore statunitense Erik Morse:

L’artista ha ridato vita al gioco per bambini della “lampada di patate”, un basilare sistema vegetale che spesso viene utilizzato per illustrare agli studenti le semplici meraviglie dell’energia elettrica. Tuttavia, nell’opera della Mathis, la quantità di patate raggiunge (circa cinquecento), ciascuna con il suo circuito di zinco individuale, saldato e assemblato manualmente ad una lampadina LED – un atto banale, ma nello stesso tempo magico, che consente di produrre un singolo fascio di luce.

Trasportando tutta questa strumentazione dal suo atelier di Zurigo a Verona, Esther Mathis ha trasformato la drawing room di Studio la Città (oscurata per l’occasione) in un labirinto fatto di fili di rame e cristalli liquidi, in penombra. Il risultato estetico è la creazione di un mondo nel mondo.

A sostenere il calmo terreno, c’è la perpetua dinamica dell’entropia, la volontà del cosmo, il fare e disfare, lavorare e smantellare in cerca di un equilibrio, annullando nel frattempo se stesso. L’esperienza della mancanza è parte integrante dell’installazione di Esther Mathis…mancanza di spazio e luce, ritratta attraverso i suoi contorni smorzati. Per illuminare lo spazio secondo gli standard visivi attuali, la sala espositiva avrebbe probabilmente richiesto molte più patate di quelle che può contenere, una parabola inquietante degli eccessi dell’ecologia moderna. Come OuLiPo, scrittore e fenomenologo urbano, Georges Perec annota nella sua raccolta di saggi, Species of Space: “Lo spazio è un dubbio: devo continuamente a marcarlo, segnarlo. Non è mai mio, mai dato a me, devo conquistarlo”.

Il secondo lavoro, Isolated Systems Vol. 2, ha occupato il pavimento della video room dove l’artista ha installato per l’occasione le sue torri di vetro specchianti di dimensioni e altezze diverse.
Proprio il vetro (quello normalissimo per finestre, non la versione museale antiriflesso), è un materiale molto amato da Esther Mathis per le sue proprietà contraddittorie: freddo, tagliente, affilato ma anche fragile ed elegante. In quest’opera l’artista ha giocato con gli effetti ottici che si creano tra le stratificazioni delle varie lamine di vetro poste una sull’altra e unite da un punto di colla trasparente. La superficie esterna delle torri risulta così uno specchio mentre laddove il vetro si mescola con un altro materiale, la colla in questo caso, mantiene la sua proprietà trasparente in un gioco di relazioni interno – esterno proprio di tutte le cose. L’artista stessa racconta con queste parole il processo creativo che l’ha portata alla realizzazione di queste “sculture”:

Mettendo diversi pezzi di vetro uno sopra l’altro, la superficie diventa progressivamente uno specchio perché la sua riflessione si accumula nel momento in cui la luce si infrange contro ogni singolo strato. Gli strati sono uniti tra loro con una goccia di colla e, proprio in questi punti di connessione, la luce penetra con un attrito molto minore dando così l’impressione di una maggiore trasparenza, eliminando l’effetto a specchio. La forma delle mie sculture assomiglia a quella delle torri – alcune più piccole, altre più grandi – che incanalano la luce attraverso i loro bordi esterni. Ma nel nucleo della torre, irraggiungibile e protetto da pareti di vetro taglienti, la colla sembra quasi un volume nascosto al suo interno. E’ morbido, la sua consistenza pare liquida e, a seconda del punto da cui lo si guarda, può variare di dimensione o addirittura scomparire.

Esther Mathis (1985), vive e lavora a Zurigo. Ha frequentato lo IED di Milano dove ha vinto una borsa di studio per la SVA di New York e ha terminato nel 2015 un Master in Arte alla ZHdK di Zurigo. I suoi lavori sono stati esposti in numerose mostre, tra cui “Präparat Bergsturz” al Chur Art Museum, assieme a Roman Signer, Robert Smithson, Naoya Hatakeyama, e “DOings & kNOTs” al Tallinn Arthall, assieme a DO IT (Hans Ulrich Obrist & ICI), George Steinmann, Anna Skodenko, Alex Cecchetti e Olof Olsson. Ha partecipato a tutte le mostre annuali del Kunstmuseum Winterthur dal 2011, e ha avuto il riconoscimento della Città di Winterthur nel 2014.