Cosa ci si aspetta – si interrogava lo scrittore Gianni Celati – quando si chiede a qualcuno di descrivere un paesaggio? Per lo più ci si aspetta che quello descriva le cose che sappiamo già, che le metta bene in cornice per renderle riconoscibili, come un cartolina. Quello della post-card è certamente il paesaggio turistico per eccellenza, piccolo compendio visivo ridotto allo stereotipo, congeniale nel ricreare l’itinerario del viaggiatore, del ricordo fattosi nomade, ora apolide ora cosmopolita. Per quanto reali, e nonostante l’effetto di persuasione del mezzo fotografico, i landscapes di Florio Puenter non sono assolutamente autentici; contrariamente a un noto proverbio che recita “quando una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia” nelle fotografie di Puenter si avverte che qualcosa è cambiato, o più precisamente: che qualcosa manca. Mantenendosi fedele al taglio originale delle immagini e usando dei virage nei toni del grigio del verde o del blu per restituire un’atmosfera vintage, Puenter ricrea quegli stessi paesaggi in loco ma – conscio di come l’architettura abbia inglobato la natura e non viceversa – omette gli insediamenti edilizi ristabilendo una percezione purista dell’habitat. Ne risultano panorami silenti, orizzonti solitari in cui la dimensione dell’uomo scompare o comunque viene occultata (lo specchio d’acqua di un lago può tuttavia tradire il riflesso di un agglomerato urbano che è stato rimosso al computer). Per Puenter non si tratta di ricreare né un Eden terrestre né una novella Arcadia, l’artista rifiuta anzi ogni rimando a tempi arcaici facendo coesistere passato e presente, natura e artificio, in modo circolare, in un climax di “revisionismo” vedutista.