Nel film “La cosa da un altro mondo”, del 1951, un essere proveniente dallo spazio resta imprigionato nel ghiaccio, e così viene ritrovato da una spedizione polare: l’essere si intravede nel blocco di ghiaccio, e ogni spettatore sa che sarebbe meglio lasciarlo lì dov’è, e nel contempo non vede l’ora che quella presenza si sveli per far finire la storia iniziata col ritrovamento. Ecco, di fronte a queste nuove opere di Herbert Hamak la nostra condizione – e il nostro sentimento – è quello di quegli spettatori, nel momento in cui intravedono qualcosa nel blocco (di ghiaccio nel film, di resina nel nostro caso): “dobbiamo sapere”, e contemporaneamente sappiamo anche che ci affascina di più il mistero che non il suo svelamento, esattamente come nel film – e in tutte le narrazioni di questo tipo -, dove la manifestazione completa di ciò che è seminascosto e appena visibile è sostanzialmente deludente. Hamak “costruisce” letteralmente il mistero e già in questo mette in atto una capacità che non è comune, perché a rigor di termini, un mistero non si costruisce, ma “è”: invece, immergendo qualsiasi “cosa da questo mondo” nella resina, si stabilisce quella “lontananza” che nella realtà è costituita da appena qualche centimetro di resina semitrasparente, ma che nell’immaginario è costituita più dal tempo che dallo spazio e colloca l’oggetto in una regione fantastica. La mancata identificazione subitanea della “cosa”, infatti, consente alla fantasia di costruire più ipotesi sulla sua natura, e molteplici livelli di narrazione su di essa, proprio a partire dal suo stato fisico, ed è proprio questa strana contraddizione tra la percezione di una semplice realtà – un oggetto imprigionato in un blocco di resina – e le possibili costruzioni immaginative – da dove viene? Perché è imprigionato? Da quanto tempo lo è? … e per ultima, ma paradossalmente non la più importante, che cos’è? – a costituire non soltanto il mistero dell’oggetto, ma il mistero stesso dell’arte che riesce a costruire misteri.
Hamak ha titolato queste sue nuove opere “Point Alpha”, indicando così esplicitamente una sorta di “inizio” (Alfa è la prima lettera dell’alfabeto greco), che nel suo caso dovrebbe però essere un “nuovo inizio”, vista la sua notevole attività precedente, per altro sempre interpretata – e non c’era motivo per non farlo – come un esempio di minimalismo astratto, concretizzato in una forma e in un colore. Qui invece sembra tutto stravolto, per la presenza di un oggetto o di un’immagine che apparentemente diventano protagonisti dell’opera, e ciò giustificherebbe la novità di un titolo simile, a sottolineare la frattura con un periodo precedente della propria storia, ma una volta passato il primo momento di sgomento concettuale – che tutti noi, che conoscevamo la sua opera precedente, abbiamo sicuramente provato … -, che lo vedeva rinunciare ai concetti di forma, di colore, di geometria, in favore di immagini, metafore e narrazioni, la considerazione potrebbe andare al vero protagonista di tutto questo rinnovamento, che non è altro che il blocco di resina. E’ questo infatti che innesca la metafora, che costruisce il tempo della narrazione, che mette in scena il mistero, molto di più dell’oggetto racchiuso al suo interno. Da questo punto di vista, Hamak non è poi così cambiato: ha solo portato in primo piano l’artista piuttosto che il suo strumento.
Marco Meneguzzo, 2015