Aldilà di ogni dinamica psicologica o di genere. Fuori da ogni divisione tra arte e artigianato, tra oggetto estetico e oggetto quotidiano. Un uso dell’ago e del filo, come fossero pennello e colore o, ancor più, tessitura e intreccio che abbracciano e sciolgono architetture, luoghi, universi spaziali.
Del resto, in che modo porsi di fronte ad opere formate da un grande reticolo di vincoli, orditure, ricami, come quelle proposte dai quattro artisti presenti in mostra? Non raccontano storie antiche di manualità, di marginalità, di tradizione: esse suscitano invece edifici segreti, costruzioni nascoste, tirano il filo di una visione che chiede di essere osservata più come nuova forma linguistica che come retaggio di classica fattualità femminile.
E, fare prospettiva sul nodo (sull’intreccio dei fili) significa affidarsi alla sparizione della forma, alla sua trasformazione in processo, in evento. E’ l’idea di soglia, di attraversamento problematico che viene a galla, è la questione di discontinuità all’interno di un tessuto (di una tela, di una rete) che si pone. Il nodo suscita la domanda, senza offrire la risposta. E’ come nel gioco chiamato “mosca-cieca”, dove gli occhi sono bendati da un panno e il nodo impone la cecità. Si cerca a tentoni, per afferrare, per riconoscere toccando. E’ il nodo che decide l’approccio ad un mondo possibile, passando per lapsus, casi, arbìtri. In esso abitano contemporaneamente consapevolezza ed erranza, deriva ed approdo.