Rappresentare il reale, senza fissarlo nelle sue apparenze esteriori, registrare il mondo oggettivo senza paralizzarlo in una documentazione impersonale, fotografare il luogo comune senza limitarsi alla pura testimonianza dei suoi dati anonimi o anche sorprendenti.
Eppure non si tratta mai di cogliere un mondo del tutto svincolato dai riferimenti con il reale: anzi l’attenzione è rivolta a spazi urbani, ad architetture (di interni o di esterni), ad angoli di strada che hanno una loro identità ben definita e che sono contraddistinti da una condizione di chiara stabilità. Il fatto che l’artista insinui elementi di disturbo in contesti consolidati non è dettato da un desiderio concettuale di riflessione e di analisi, quanto dal bisogno di spostare un po’ più in là il limite di ciò che è possibile rappresentare. Sono magari immagini semplici, appena suggerite, che emergono come fantasmi tra le pieghe di ciò che è noto (Marina Ballo Charmet, Armin Linke), o l’offuscamento delle divisioni fra la realtà e l’artificio (Sven Påhlsson), o un gioco di doppie, se non addirittura plurime esposizioni, che producono effetti di sottile spaesamento visivo (Davide Bramante, Michael Wesely). A volte le immagini rimangono sospese tra l’asettico documento e l’allusione a una metafora discreta, appena accennata (Thomas Struth, Jean-Marc Bustamante), a volte sembrano portare in primo piano ambigue, incantate costruzioni (Alexander Timtschenko, Roland Fischer), a volte moltiplicare, interfacciare, far impazzire le vedute (Giacomo Costa), a volte dissolversi come in un’atmosfera di nebbia (Monica Carocci).