La parola-chiave dell’ultimo lavoro site specific di Jacob Hashimoto è ovviamente “gas”. Un gas è un elemento che si diffonde nello spazio disperdendo le sue molecole in maniera imprevedibile, e comunque modificando lo spazio circostante, quando anche non lo satura rendendolo completamente diverso, sostituendosi o aggregandosi con l’ambiente atmosferico preesistente. È un elemento “volatile”, cioè in continuo e impalpabile mutamento: nulla di più preciso per definire il lavoro dell’artista americano, che da quando può realizzare grandi lavori in situ mette in scena sempre ingombranti dispersioni costituite da centinaia e centinaia (in questo “Gas Giant” sono circa 7.500) dei suoi singolari moduli, che qui potremmo appunto chiamare per analogia “molecole” (“monadi”, alla Leibniz, forse è troppo…). Il risultato è una specie di “muffa” variamente colorata, e contemporaneamente una concrezione aerea che solitamente va a segnare i confini dello spazio entro cui è racchiusa, come se questi fossero i limiti assolutamente provvisori che per ora la contengono. Poi, queste molecole si dispongono secondo somiglianze interne: colore con colore, forma con forma, pattern con pattern, fili d’erba con fili d’erba…
Il risultato è una sorta di singolare paesaggio, che tuttavia non sappiamo se essere naturale, vegetale, umano, perché il senso della dispersione – cioè dell’imprevedibilità generale della disseminazione – è superiore a quello della razionalità ordinatrice dell’artista. E benché questo sia oggettivamente impossibile – visto che esiste un autore, tra l’altro molto paziente e pignolo durante l’allestimento, e una schiera nutrita di assistenti che seguono il suo preciso progetto -, l’esito immediato, visivo ed emotivo, ci suggerisce una specie di “autodisposizione naturale” degli elementi, di cui dobbiamo trovare il bandolo compositivo, come quando si analizza un ecosistema completo, per di più vivendoci dentro. Ecco allora che l’opera diventa una grandiosa metafora di ogni tipo di “sistema”, dove ogni singolo elemento, anche solo per vicinanza, influenza l’altro nella costruzione di un’armonia. Perché proprio un’armonia e non una dissonanza? Perché ogni costruzione, ogni composizione, anche la più inverosimile o pericolosa, comporta un progetto, una visione d’insieme che in nuce è già nel più piccolo degli elementi costitutivi, anche se i “mattoni”, nel nostro caso, sono aquiloni. (Marco Meneguzzo, 2013)