“Midnight’s Children”, cioè “Figli della mezzanotte” è il titolo della mostra che ha raccolto le opere di Riyas Komu, di Jagannath Panda e di Hema Upadhyay, ed è mutuato dal primo e più bel libro dello scrittore indiano Salman Rushdie. Il romanzo racconta di bambini nati attorno al momento della proclamazione dell’indipendenza indiana, e che per questo sarebbero “sensitivi” e legati indissolubilmente da qualcosa di segreto e profondo, indipendente da ogni elemento visibilmente esteriore come la classe sociale, la religione, la casta, la ricchezza, il sesso, l’intelligenza: questo legame peculiare, nel nostro caso, va inteso come la metafora del linguaggio artistico.
Di più, la scelta caduta su Komu, Panda e Upadhyay risponde a criteri più profondi che non quelli della semplice appartenenza culturale (che comunque ha un suo peso): le peculiarità di questi tre artisti, infatti, compendiano in sé da un lato un feedback culturale comune, riferibile alle stesse radici, dall’altro una ricerca che interpreta i nuovi linguaggi globalizzati, primo fra tutti la tendenza spiccata alla “narrazione” di storie attraverso immagini, sculture e installazioni fortemente evocative.