I lavori dell’artista californiano sono delle altrettante scommesse vinte sui rapporti tra forma, colore e musica. In un certo senso si può dire che Roden sia riuscito a realizzare il progetto di Kandinsky di usare come modello del linguaggio dell’arte, quello musicale, attraverso la “risonanza interiore”. Ma, in effetti, il gioco diventa molto più complesso e in equilibrio tra intermedialità e rimandi reciproci. I livelli di “traduzione” che l’artista inventa lavoro dopo lavoro, non vogliono mai uniformarsi ad un codice, non vogliono chiudersi in una formula univoca. Mantengono la libertà espressiva e combinatoria di opere dirette e spontanee. Non si avverte mai nulla di particolarmente “costruito”, anche se è chiaro che Steve Roden abbia acquisito in oltre un decennio d’ esperienza, un livello di capacità linguistica sofisticato e maturo.
Il fascino dei suoi lavori risiede proprio in questa strutturata indeterminatezza, in questa possibilità di dialogo continuo con il silenzio. Forse non è completamente vero, come scrisse Walter Pater, che “Tutte le arti tendono alla musica”. Probabilmente è il silenzio la musica da avvicinare, come complemento metafisico della spiritualità e della capacità evocativa del colore. Quest’ultimo tende a diventare un pattern o una composizione morfologica come una mappa. Anzi spesso il rapporto diventa contrappunto, allora il segno e il colore sono protagonisti di un dialogo con lo sfondo visivamente organizzato. Ma non vi è mai la prevalenza di un elemento sull’altro. Un principio di equilibrio prevale su tutto, una percezione nuova appare, sospesa tra suono e visione, in un “sentire” che è un nuovo stato di coscienza.
Valero Dehò